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Quando mia madre imparò a lavorare a maglia

racconto lavoro a maglia

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E’ un regalo che abbiamo voluto farti per farti sapere quanto per noi le nostre famiglie siano importanti, e dunque, anche la famiglia a cui insieme apparteniamo, quella di chi ama i lavori a maglia e uncinetto, sia così importante da averci costruito la nostra vita. Grazie a te.


La primavera è da sempre la mia stagione preferita. Facile ed anche un po’ banale, ma poi, col tempo, ho capito che facile e banale è la vita stessa, se hai la voglia di viverla come fosse, sempre, primavera.

All’inizio di questa storia sono poco più di un pesciolino, come quelli dorati che si nascondono nei libri e che quando li apri scappano via senza farsi più vedere.

Invece io, all’epoca in cui mia madre imparò a lavorare a maglia, ero un piccolo pesciolino che nuotava, poco più di un fagiolino chiuso nel buio caldo rassicurante di un mare accogliente. Mia madre aveva quasi trent’anni, e ancora non sapeva che dentro di lei stavo cominciando ad esistere.

Mia nonna mi raccontò come andò la storia, quando per la prima volta, in un rapporto tutto tra donne, si accese chiara la sensazione che invece di essere in due su quella panchina eravamo, ormai, irrimediabilmente in tre.

Erano al parco vicino casa, quello di cui poi avrei imparato a conoscerne ogni zolla, e in cui avrei trascorso le ore più belle della mia infanzia. Erano sedute -ma dovrei dire eravamo, anche se forse io non ero seduta-, in uno di quei pomeriggi di maggio in cui sembra non possa accadere niente al mondo se non qualcosa che migliori tutto quello che già esiste, e fu allora che accadde. Modestamente!

Mia nonna e mia madre erano sedute sulla panchina. Mia nonna era andata in pensione proprio quell’anno, per tanti anni era stata insegnante di italiano alle medie e spesso i suoi pomeriggi al parco erano ancora pieni di bambini cresciuti che la salutavano e si fermavano a parlare con lei.

Ma quel giorno erano sole, lei stava lavorando un gilet da regalare a mio nonno per l’estate futura, per quando avrebbero fatto la solita vacanza al lago e di sera mio nonno lo avrebbe indossato sfoggiandolo come segno di un amore, di un pensiero costante, che lo legava a sua moglie. Mentre mia madre si guardava intorno un po’ inquieta.

Mi disse che guardava le mani di sua madre, della mia futura amata nonna, mentre intrecciavano le maglie, ed era come ipnotizzata dal suono che facevano i ferri, battendo ritmicamente tra loro.

“Mi disse che guardava le mani di sua madre, della mia futura amata nonna, mentre intrecciavano le maglie, ed era come ipnotizzata dal suono che facevano i ferri, battendo ritmicamente tra loro.”

Erano in silenzio, come solo madre e figlia sanno stare in silenzio, uno di quei silenzi densi e rosa, sicuri; ed io immagino ancora oggi questa luce calda ma non troppo, e immagino un volo intorno di insetti buoni sul calare del pomeriggio, e se trattengo il fiato mi sembra anche di sentire il ticchettio dei ferri che mandano avanti il lavoro nelle mani di mia nonna… quando mia mamma si accorse, non saprebbe neanche lei dire come, per la prima volta, di me.

Fu uno sfarfallio dello stomaco, mi raccontò; come quando ti innamori per la prima volta e ti passa l’appetito, una sensazione di leggerezza, come se da dentro il tuo stomaco, mi disse, ci fossero delle piccole ali e da dentro la pancia tu potessi sollevarti da terra e cominciare a volare. Una cosa del genere mi disse.

Anche allora avevamo un cane, si chiamava Ringo ed era un bastardino quasi rossi di colore, un incrocio meticciato tra razze ormai difficilmente scomponibili tra loro, nella sua genìa doveva esserci però di sicuro un Border Collie e un bassotto, perché era ugualmente intelligente e rompi scatole, energetico diciamo.

Di lui ricordo poco, tanto che il ricordo sembra più una fiaba che una realtà vissuta, ma chi può dire di ricordare la propria infanzia in un altro modo?

C’era Ringo che correva nel prato, cacciava chissà quale bestia quando si lanciò in un prato di dente di leone.

Mia madre ricorda perfettamente che Ringo si mise a scodinzolare e a giocare con quei fiori. Nonostante fosse solo maggio tutte le infruttescenze erano già mature e allora scodinzolando e saltando e forse anche starnutendo, cominciarono a volare tutti i soffioni e l’aria si fece piena di quei piccoli paracadute dai semi bianchi.

Mia madre, sorrise e tornò a guardare le mani di mia nonna. Era l’ora in cui nelle zone vicino al mare la brezza di mare si trasforma in brezza di terra, non so se ti è mai capitato di accorgerti durante una giornata, soprattutto in estate, che c’è un preciso momento in cui l’aria cambia verso. Il sole, che al mattino ha scaldato la terra prima dell’acqua del mare, comincia a perdere energia nel tramonto; ed allora la terra comincia a raffreddarsi e dal mare comincia a salire aria calda, e comincia a soffiare dalla terra una brezza leggera. Mia madre mi raccontò, pensò che la sua vita stava cambiando direzione come quel venticello, così disse.

Si, dovette andare proprio così, staccato dal proprio stelo da Ringo un soffione venne spinto verso mia madre, poggiandosi sulla sua pancia.

E mia madre, che non si era mai interessata dei lavori a maglia della nonna, né tantomeno le aveva mai chiesto nulla al riguardo se non di avere una sciarpa in qualche annata particolarmente ispirata, tra il ticchettio dei ferri di mia nonna, la luce del crepuscolo e una brezza di terra leggera leggera, le chiese:

-Ti va di insegnarmi?

Mia nonna sollevò appena gli occhi dal lavoro, ma non fece in tempo a dire nulla, non disse nulla neanche mentre si voltava verso di lei, e poi rimase ancora un po’ in silenzio, perché mia madre aggiunse:

-Ho voglia di imparare… mamma, mi sa che sono incinta, le disse togliendosi con due dita il soffione dalla sua pancia ancora sottile.

L’anno successivo, in estate ero già li, voglio dire, ero già qui, ero nata insomma. Nel mio piccolo ovetto, dove dormivo beata al sole del tardo pomeriggio. Mia nonna continuava ad insegnare tecniche sempre più complesse e divertenti a mia madre.

Nel giro di meno di un anno mia madre divenne esperta, aveva imparato.

Diceva mia nonna che ce l’aveva nel sangue, che tutte le donne della nostra famiglia erano naturalmente portate per i lavori a maglia, sapete no, come vanno queste cose.

Penso che mia nonna avesse ragione. Molto spesso la nonna aveva ragione. Vedo il rapporto con i lavori a maglia delle donne della mia famiglia e li trovo indissolubilmente legati alle nostre vite, ai nostri affetti, alle nostre stesse esistenze.

Ho ancora con me tutti i lavori a maglia che ho fatto e che mi hanno regalato, e ciascuno di essi ha un senso, ha infilato dentro di sé, indissolubilmente, un pezzo della mia vita.

Ho ancora con me la prima sciarpa rossa fatta quando avevo poco meno di 11 anni, nell’estate che ha preceduto il mio ingresso alle medie. L’ho fatta io, con l’aiuto di mia nonna, piena di maglie saltate e di errori, ma anche dell’enorme soddisfazione di essere riuscita a farcela.

Forse non ci crederai, ma il ricordo della fatica, della soddisfazione e della capacità di imparare che ebbi a fare quella sciarpa, ha accompagnato la mia vita e ha fatto di me quelle che sono, come gli incontri, gli amici e gli amori che ho vissuto.

Se mi fermo a pensarci, mi viene naturale credere che i lavori a maglia possano essere una piccola metafora della vita, imparare qualcosa, avere paura di fallire e poi farcela, penso a come sarebbe stata più povera la mia esistenza senza i lavori a maglia. Oltre che meno colorata!

Ho ancora con me il primo lavoro fatto da mia madre, la copertina per la mia prima culletta, poi per il lettino; ho le scarpine e il cappellino, minuscoli. Sembra incredibile che in un momento della mia vita vi entrassi li dentro, che mia figlia ci sia entrata.

Se ci penso, ho smarrito molte cose durante la mia vita, ed è normale, immagino, che ciò sia accaduto. La cosa strana invece è che non ho smarrito nessuno dei lavori a maglia che mi sono appartenuti.

Passi tutta l’infanzia a sognare di crescere e il resto della vita a ripensare a quando eri piccola. Io lo faccio ancora, ripenso di continuo a mia nonna, al nonno, a quanto tempo siamo stati insieme mentre mia madre spariva assorbita dalla vita produttiva, dalla vita pratica.

Mia nonna con la sua pazienza ad insegnarmi, e le mie mani che facevano fatica ad imparare; al nonno, al timore che provavo quando facevo delle marachelle che sapevo che mio nonno avrebbe fatto finta di ignorare, se avesse potuto, o che mi avrebbe terrorizzata col suo sguardo di rimprovero.

“Il nostro capolavoro assoluto fu la mia sciarpa rossa, il mio primo lavoro.”

Gli anni passarono veloci, nell’incoscienza della giovinezza mi ritrovai in un batter d’occhio a vent’anni. Dopo di me mia madre riprese a lavorare presto e sparì da quella panchina in cui mi aveva dichiarato alla vita. Mia nonna no, mia nonna restò vicino a me fino a quando poté. Mi insegnò i primi punti, giocavamo anche a palla i primi anni, poi rimanevamo a parlare fino allo spegnersi del pomeriggio. Oppure mi insegnava a cucire, ma cucire non l’ho mai amato, e non piaceva troppo neanche a lei da quello che ricordo.

Il nostro capolavoro assoluto fu la mia sciarpa rossa, il mio primo lavoro.

In quella semplice sciarpa fatta a punto legaccio, dentro ogni maglia, dentro ogni punto saltato io rivivo una emozione. Come puoi immaginare di errori ce ne sono tanti in quel primo lavoro, ma c’è una maglia saltata in particolare in cui, ogni volta che la guardo mi ricordo le parole di mia nonna.

-Ci sono due tipi di persone che lavorano a maglia, vabbè, ce ne sono tante, -disse la nonna- ma in linea di massima sono due, quelle che desiderano un lavoro perfetto, che se si accorgono che qualcosa non va, anche a lavoro quasi finito, smontano tutto e ricominciano fino a quando tutto non è perfetto -perfetto per loro- e possono dirsi soddisfatte; e poi ci sono quelle che se fanno un errore vanno avanti comunque, che vogliono finire, che non importa se è venuta non proprio perfetta, ma almeno hanno finito.

-Ma nonna, ricordo che protestai, fare un lavoro in fretta ma farlo sbagliato non mi piace; però non mi piace neanche metterci una eternità e smontare ogni volta quello che ho fatto per un piccolo sbaglio…

Io la risposta la ricordo ancora, e mi vengono ancora i brividi a ripensare all’importanza che diedi a quelle parole e a questa sciarpa rossa.

Il colore rosso è ancora il mio preferito, un po’ stinto dagli anni e dai lavaggi, vagamente infeltrito, ma ancora tenuto in vita dall’amore che ho continuato a coltivare per mia nonna. Anche dopo che mia nonna è morta.

Quando mia nonna morì era inverno, una mattina d’inverno dei miei 14 anni. Mi vennero a prendere a scuola e quello che feci fu di scappare sulla nostra panchina, e con appena un giubbetto rimasi seduta li fino al calar della sera, quando cominciò persino a nevicare, almeno io così ricordo, ma non giurerei che sia andata proprio in questo modo.

Quello che so di certo è che in quella occasione scoprii di amare mio padre.

Venne a sedersi al mio fianco e non disse nulla, rimase li in silenzio per un tempo immenso.

Non mi obbligò a rientrare in casa, né tantomeno disse quelle sciocchezze che di solito capita di dire quando si è troppo piccoli i dolori troppo grandi, ma mi lasciò intorno al collo la mia amata sciarpa rossa, quella di mia nonna, e se ne tornò a casa.

Non bastò, perché mi ammalai.

Metti in fila gli anni, collezioni perdite, guadagni conquiste e nel frattempo speri, come in quella poesia di quel poeta greco che parlava di candele accese per i giorni a venire e di spente e fumose per quelli passati. Spero di averne ancora tante di candele accese, ma quel che è sicuro è che quelle spente, oggi sono di sicuro di più.

Quando scoprii di essere incinta mia madre con me non c’era, ma nei mesi successivi non mi lasciò più sola. Oggi guardo mia nipote nella sua piccola culla, e ripenso a quando mia figlia mi ha detto di essere incinta, e mentre attendo di poterle insegnare ciò che mia nonna mi insegnò, la osservo.

Stringo ancora spesso la mia sciarpa rossa, e penso a tutti quegli errori che devo ancora fare, che dobbiamo fare ancora insieme io e lei, e quando accadrà. Amore mio, le dirò, una risposta non c’è, il fatto è che devi decidere, e devi decidere tu. Comincia da questa maglia saltata, te ne eri accorta vero, ma facevi finta di non vederla, invece è li, è qui. In questa sciarpa c’è un buco, c’è. Se è piccolo o grande lo devi decidere tu, e una volta che hai scelto poi devi prendere un’altra decisione, devi decidere se ti sta bene così, oppure se conviene smontare tutto fino allo sbaglio e da li ricominciare concentrandoti di più, oppure no, va bene cosi, per il momento è il mio massimo, e devo rimanere concentrata, e sono felice così. Il bello coi lavori a maglia e che puoi decidere ogni volta e tu sei padrona di tutte le tue scelte. Se riuscirai a capire ogni volta il limite oltre il quale le cose non vanno più bene, allora sarai felice.

E le darò un bacio, proprio come fece mia nonna.

racconto sui lavori a maglia

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